“Fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere.”
– Henry Cartier Bresson –
Comincio con una citazione di uno dei più grandi maestri delle fotografia il primo di tre articoli dedicati alla storia di questa forma d’arte.
Buona lettura!
La parola “fotografia”, inventata da William Herschel nel 1800, deriva dal greco antico ed è composta dai due termini φῶς (phôs), luce e γραφή (graphè), scrittura o disegno, quindi, scrittura eseguita con la luce. Credo che questa sia una sintesi perfetta.
Sappiamo che la luce è l’elemento fondamentale della fotografia, qui analizzerò soprattutto come l’uomo sia riuscito negli anni a perfezionarne l’uso.
I Greci per primi compirono studi sulla luce e sull’ottica inventando la camera oscura: questa permetteva di ottenere un’immagine dell’esterno capovolta, formata dai raggi del sole passanti attraverso un piccolo foro in una stanza buia.
Questa tecnica inizialmente fu utilizzata da Aristotele, da Euclide, da studiosi Arabi e infine anche da Keplero, per compiere osservazioni astronomiche in particolare sulle eclissi di sole.
Nella seconda metà del 1500, Daniele Rabarbaro riesce ad ottenere un’immagine più nitida e luminosa applicando una lente biconvessa alla camera oscura. Pittori e architetti la utilizzavano per la riproduzione fedele di paesaggi, architetture e per il disegno prospettico e a seconda dell’utilizzo avevano diverse dimensioni.
Si può però cominciare a parlare davvero di fotografia soltanto nei primi anni dell’Ottocento: con la nascita della chimica e la scoperta dei primi materiali fotosensibili, come in particolare alcuni sali d’argento. Nel 1827 Joseph Nicèphore Niepce, attraverso la tecnica dell’eliografia, riesce per la prima volta a fissare un’immagine su un supporto di peltro rivestito di bitume di Giudea, posizionato all’interno della camera oscura. Questa prima rudimentale “fotografia” rappresenta una veduta dalla finestra della sua casa di campagna. Per realizzarla furono necessarie otto ore di esposizione durante le quali le ombre si spostarono con il sole; per questo motivo l’immagine risultò molto disturbata .
Dopo aver appreso la tecnica di Niepce, Louis Daguerre migliorò la tecnica inventando il “Dagherrotipo”. Questo procedimento permetteva di produrre una foto in circa 15-20 minuti. Utilizzava un supporto di rame placcato in argento esposto a vapori di iodio sul quale poi si formava l’immagine; questa tecnica rimase in auge per oltre 20 anni.
Il Dagherrotipo rappresentava un notevole balzo in avanti rispetto all’eliografia: l’immagine che veniva prodotta era più nitida, definita, ricca di dettagli e ottenibile in un tempo relativamente breve.
William Henry Fox Talbot, in Inghilterra, contemporaneamente a Daguerre, inventò un metodo chiamato “Calotipo”. A differenza del Dagherrotipo, la Calotipia permetteva di produrre più copie di un’immagine utilizzando un negativo. La qualità della stampa risultava però inferiore rispetto al Dagherrotipo, specialmente nei dettagli. Inoltre, la possibilità di ottenere immagini riproducibili, non rendeva il prodotto calotipico prezioso come l’opera unica del Dagherrotipo.
Successivamente si cercò una via di mezzo tra le due tecniche e venne inventata l’Albumina.
Questo procedimento negativo-positivo utilizzava lastre di vetro ricoperte di una soluzione di albume d’uovo e alogenuro d’argento che permetteva sia di ottenere fotografie molto più nitide rispetto al metodo di Talbot, sia di poterne fare più copie. È a questo punto che la fotografia comincia a diffondersi soprattutto tra le classi alto borghesi. Un ritratto fotografico era sicuramente più attendibile rispetto a quello di un pittore: la macchina rappresentava esattamente ciò che stava davanti all’obiettivo senza alcuna mediazione. L’unico difetto era il colore: tutte queste tecniche offrivano un’immagine in bianco e nero. Su questo punto facevano leva gli impressionisti sostenendo la “superiorità” della pittura (che sarebbe durata ancora poco).
Nel 1861 il matematico e fisico inglese James Clerk Maxwell, meglio conosciuto per lo sviluppo della prima teoria moderna dell’elettromagnetismo, spiegò che attraverso la sovrapposizione di tre fotografie realizzate con tre diversi filtri (rosso, blu e verde), queste restituivano un’immagine a colori. La prima fotografia a colori della storia rappresenta un Tartan, tipica stoffa scozzese.
Negli anni Settanta Richard Leach Maddox realizzò i primi negativi in gelatina: era l’inizio dell’era della pellicola. Il fotografo scioglieva la gelatina nell’acqua, aggiungeva una soluzione di bromuro di carminio e nitrato d’argento. I cristalli dei due sali si scioglievano nella gelatina e infine l’emulsione veniva stesa su una lastra di vetro che veniva poi lasciata ad asciugare.
Alice
BIBLIOGRAFIA
- Enrico Maddalena, Manuale completo di fotografia, Hoepli, Milano, 2012
SITOGRAFIA